sabato 3 marzo 2018

GILLO DORFLES (1910 - 2018)

Teorico d'arte, pittore e filosofo era nato a Trieste nel 1910.  "Ripensò la categoria del Kitsch: dapprima come espressione del cattivo gusto, sempre più sfrenato e ubiquitario, in seguito come parte integrante dell’arte stessa"
Gillo Dorfles
© Riccardo Vecchio


GILLO DORFLES
E' la prima volta che vedo Gillo Dorfles senza cravatta. Ha un' eleganza domestica. Senza contrappunti stilistici. Mi accoglie nella penombra del salotto milanese nel quale trionfa un pianoforte a mezzacoda. Il professore è entrato nel centotreesimo anno di età. Essendo nato nel 1910, cioè quattro anni prima che scoppiasse la Grande Guerra, la figura di questo straordinario testimone fa pensare a qualcosa di irripetibile. Si muove ancora agile cercando di farmi accomodare su un bel divano posto proprio sotto una sua opera. Perché Dorfles, oltre a essere un critico d' arte, è un apprezzato pittore, e appassionato di musica moderna. Quasi a voler sottolineare, con tutto ciò, la sua aria di antipassatista. Il professore si scusa perché ad attenderlo tra un po' ci sarà una macchina che lo porterà dritto a un convegno internazionale dedicato all' estetica orientale e ai rapporti con l' Occidente. È incredibile l' attivismo che egli ancora esprime. E mentre gli sto per chiedere di che cosa parlerà, mi viene in mente che forse una delle prime manifestazioni del kitsch, di cui lui è stato un acuto teorico, la si può far risalire a quella curiosità culturale che dal diciannovesimo secolo in poi l' Occidente cominciò a nutrire nei riguardi dell' Oriente. «Il kitsch può manifestarsi ovunque. Di solito un fenomeno che diventa moda, stravolge, mortifica, banalizza, estende uno stile, amplifica un pensiero fino a perderne l' origine. Diventa appunto kitsch», sentenzia il professore.
 Si è mai sentito kitsch?
«Il kitschè più una categoria estetica che esistenziale. Anche se può coinvolgere la sensibilità personale. Dal punto di vista delle scelte e dei giudizi, quindi, direi proprio di no. Provo un certo orrore quando il gusto spinge verso il basso. Ma poi penso che il movimento discendente faccia parte della nostra società di massa».
Dalla quale comunque tenta di distinguersi. 

«Con tutte le mie forze».
Grazie alle sue lontane origini mitteleuropee.
«Ormai lontanissime».
Sembra un miracolo della storia: ma lei è nato sotto l' impero austroungarico.
«E ne sono molto fiero. Avevo solo tre anni, ma ricordo benissimo le bandiere gialle e nere che sventolavano in occasione di una celebrazione o di una festa».
L' aquila bicefala, sotto la cui insegna ammirammo la principessa Sissi.
«Fu soprattutto stemma di una parità fra due mondi».
 In fondo, anche lei ha fatto parte di due mondi.
«Cosa intende?».
So che è nato a Trieste.
«Sì, ma la mia famiglia era friulana, di Gorizia. La parte paterna».
Cosa faceva suo padre?
 «Era ingegnere navale».
 Le navi sono state importanti nella sua infanzia?
 «Più che le navi il mare. Quello di Trieste era bellissimo. Si andava a passeggiare. Ricordo di averlo fatto spesso con la mia amica Leonor Fini».
Una figura molto eccentrica.
 «Lolò, così la chiamavano, era nata a Buenos Aires, la madre triestina, dopo la separazione fuggì a Trieste con la figlia. Che qui crebbe. Sì, era una ragazza anticonvenzionale. I miei furono messi in guardia dal farmi frequentare un personaggino considerato non troppo per bene. Avevo sedici anni e lei diciotto».
Cosa le manca della sua giovinezza?
«Non vorrei parlare dei miei sentimenti personali».
Non sono confessioni imbarazzanti che le chiedo.
«In questi casi scatta una specie di pudore autobiografico. Non amo parlare delle cose intime perché sono irrilevanti agli occhi degli altri. E poi, non mi ritengo così interessante da essere oggetto di divulgazione. Non ho mai scritto un libro di memorie. Né, per ciò che mi resta da vivere, mai lo scriverò».
Eppure, tutto quello che lei ha fatto sarebbe adeguato al genere memorialistico.
«Per carità, niente di intimo!».
È curioso, detto in questa maniera così perentoria.
«Cosa ci trova di strano?».
Beh, Trieste stessa è stata il luogo per eccellenza della psicoanalisi, ossia di ciò che di più intimo si tenta di strappare all' animo umano.
«Situazione deprecabile, anche se culturalmente feconda. Fu grazie a Edoardo Weiss, che aveva studiato a Vienna con Freud, che la psicoanalisi mise radici profonde a Trieste. Me ne incuriosii leggendo a fondo i testi di Freud».
Cosa ne ricavò?
«Un grande entusiasmo. Tanto è vero che quelle letture determinarono il mio orientamento negli studi. All' università presi medicina, con specializzazione in psichiatria».
La follia l' attraeva?
«Mi attraggono i meccanismi della mente, rilevarne certe stranezze e anomalie. Ma alla fine i miei veri interessi si rivolsero più all' arte e all' architettura che non all' inconscio».
E la letteratura?
«Ovviamente, fu favorita dal fervore triestino. C' erano molte personalità: il critico Giacomo De Benedetti, il poeta Umberto Saba, lo scrittore Italo Svevo e quel nomade della cultura che fu Bobi Bazlen».
Ha conosciuto Bazlen?
«Ma certo. Fu un iniziatore culturale. Era più grande di me di una decina di anni. Ma su un sedicenne quale ero fece un' impressione notevole. Mi colpiva oltre all' intelligenza quel fisico stranissimo e squinternato. A lui devo le prime letture di Kafka e di Wedekind. Però Bobi era malvisto da Saba».
Perché?
«Era convinto che su Ninuccia esercitasse un' influenza negativa. Per Bobi la figlia di Saba era una vera passione e questo il poeta non lo sopportava».
Poi c' era Svevo.
«Un uomo spiritoso e spontaneo. Non un intellettuale ma uno scrittore dotato di un grande istinto narrativo».
Perché questa felice congiunzione di astri proprio a Trieste? 
«A volte accade. Forse anche per quell' irredentismo che oggi sembra obsoleto e che allora contava molto. E poi si respirava una cultura europea. Non è casuale che Joyce sia vissuto a Trieste per una decina di anni e qui abbia scritto l' Ulisse ».
Per come si erano messe le cose lei poteva diventare un critico letterario.
«Certamente, ma la mia attenzione si volse ben presto al mondo dell' arte».
Che rapporto c' è oggi tra la critica e il mercato?
«Non c' è dubbio che l' arte ha bisogno del mercato, d' altra parte non sempre il mercato giudica come dovrebbe l' opera d' arte. Non sempre il mercato sceglie gli artisti migliori».
Conta in un' opera più la bellezza o la provocazione? 
«La provocazione è una situazione. O meglio oggi è una forma di opportunismo. Può suscitare l' interesse, soprattutto dei media, ma da sola non è sufficiente a dare valore a un' opera. Quanto alla bellezza è un concetto frusto che è meglio non parlarne. È finita l' avventura di un pensiero artistico rinascimentale. E mi pare evidente che non si possa continuare a esprimere un giudizio sulla più recente pittura come se niente fosse accaduto in campi espressivi ad essa vicini, come la fotografia, il cinema, il design e perfino la pubblicità».
 Lei è stato tra i primi a intuire e ad analizzare il mondo del design. 
«Me ne sono occupato precocemente, quando ancora non ci si era resi conto dell' importanza, anche artistica, della progettazione di un oggetto».
 E lo ritiene un' espressione dell' arte contemporanea?
«Come l' architettura, del resto. Si tratta di un' espressione artistica con una componente funzionale indispensabile, che altre arti non hanno».
Che rapporto ha con gli oggetti? 
«Sono la base della nostra vita di relazione e riflettono molto bene l' epoca che li ha prodotti. L' arredamento, la moda del vestire e il design sono le spie di ciò che una società è in un determinato momento. Poi, non si tratta di considerarli alla stregua della grande opera d' arte. C' è sempre il lato consumistico, il marketing, la funzionalità. Ma lo studio del design e della moda è importante per capire come cambia la società contemporanea».
Della contemporaneità lei è un critico. È anche uno storico?
«Non sono uno storico, per lo meno non in senso tradizionale o accademico. Tendo a distinguere la critica dalla storia dell' arte. La critica si esercita sul presente e si fonda sulla sensibilità del critico».
Anche lo storico dell' arte ha la sua sensibilità. 
«Ma di altro tipo. Longhi, Berenson, Ragghianti- per fare degli esempi importanti - furono degli storici dell' arte venerati per la loro preparazione. Erano sensibili ai colori, alle forme, alle corrispondenze tra le varie epoche. E hanno svolto un lavoro fondamentale per stabilire l' autenticità di certi autori e opere. Ma nessuno di loro capiva di arte contemporanea».
In che cosa difettavano?
«Non avevano la sensibilità. La contemporaneità ci pone continuamente di fronte a infiniti sbalzi. Mentre è aumentata la velocità del cambiamento è diminuita la durata di un' opera o di un movimento. Un critico non può non tenerne conto».
Oltre che critico lei è anche un artista. Come si giudica?
«Diciamo che la mia opera esula dall' attuale situazione dell' arte italiana».
Cosa vuol dire esula?
«Vuol dire che la mia arte è solo mia. D' altronde, se un' attività artistica non è personale meglio che non esista».
Che rapporto ha con la sua opera?
«Soprattutto di genere affettivo».
Solo?
«Sì. Non è una relazione critica. Altrimenti ci sarebbe un conflitto di interessi».
Questo paese ne sa qualcosa.
«Abbiamo trascorso anni di cattiva politica. Non me ne sono mai occupato. Ma posso dire che sono stati anni terribili per il cattivo gusto messo in mostra da chi ci ha rappresentato».
 Il "cattivo gusto" ci riporta al kitsch. 
«Fuori dall' estetica, che resta comunque il suo campo d' azione, il kitsch è un' esibizione di conformismo».
Di lei si dice che sia uno snob?
«Non amo gli snob. Ai miei occhi sono dei radicalkitsch».
 Lo snobismo è anche una virtù orientale. L' apprezzamento del "vuoto" rispetto al "pieno" considerato di pessimo gusto.
«Magari ne discuteremo al convegno se mi lascia andare».
 La lascio dopo un breve commento circa la differenza tra estetica orientale e occidentale. «Vasto programma, signore! Per liberarmi di lei le dico soltanto che il Rinascimento inventò la simmetria e con essa il pieno nello spazio. Se poi si osservano i templi di Katsura o uno spettacolo del teatro tradizionale giapponese si capisce che in quella civiltà contava moltissimo l' asimmetria, lo spazio aperto, il vuoto. Sono due estetiche diverse».
 È sorprendente detta così da un uomo che entra nel sui 103 anni. Come li sente?
«Non rispondo a questa domanda. Ho un appuntamento all' Accademia. Mi lasci andare».

fonte

rassegnastampa.PDF
E' morto Gillo Dorfles, scompare a 107 anni il rivoluzionario critico d'arte
Addio Gillo Dorfles, ragazzo eterno
"Paesaggi e personaggi" di Gillo Dorfles: l'autore si racconta in un prezioso diario di viaggio. Ecco un estratto del libro
In conversazione con Gillo Dorfles [PAESAGGI E PERSONAGGI]





https://www.stilearte.it/gillo-dorfles-a-104-anni-inaugura-una-sua-nuova-mostra/

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Nota :

IL BUON GUSTO DI GILLO DORFLES
Se ne è andato il critico d’arte che ha cercato di spiegarci che cos’è il kitsch e, resosi conto che non avevamo capito bene, lo promosse come forma d’arte minore. Aveva compiuto 107 anni. Agli inizi degli anni Ottanta era stato a Fidenza, a parlare nell’ambito di un ciclo di conferenze organizzato dall’assessorato al Tempo libero di cui era titolare Dante Pedretti. Andammo a cenare all’Astoria, allora ristorante senza pizzeria. Gli allungai la busta con il suo compenso non pattuito. Ebbe il buon gusto di non aprirla. Conteneva una somma cash, cheap and kitsch: 30 mila lire. Ancora oggi, quando ci penso, provo vergogna per essere stato il latore di quella busta dall’indecente contenuto. Sì, mi sono vergognato per conto di un Comune che spendeva e spandeva per l'assessorato alla Cultura, ma era tirchio per le iniziative culturali di altri assessori. Dispettucci tra due diversi partiti di una sinistra litigiosa e oggi scomparsa.
Tra gli altri conferenzieri di quel ciclo, ricordo l’americanista Alessandro Portelli, arrivato direttamente da Modena dove lo avevano pagato con dei salumi, Beniamino Placido, che si era accontentato del biglietto del treno da e per Roma, Peter Kolosimo, che aveva parcheggiato la sua Žiguli (auto sovietica prodotta dalla Lada-Vaz di Togliattigrad) in piazza Garibaldi. Nel frattempo era nevicato e avevamo dovuto spingere l’auto fino alla discesa della rocca, perché si mettesse in moto. Lo accompagnava la giovane moglie Caterina, bella e dallo sguardo enigmatico come quello di Juliette Gréco in Belfagor.
L’opera di Dorfles che tutti ricordiamo è «Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto», pubblicata da Mazzotta nel 1968. Sei anni fa, in un articolo scritto per la Repubblica, Natalia Aspesi ha ricordato che quel libro «era piombato come un fulmine, e non solo in Italia, in mezzo all’arte e alla mondanità, all’avanguardia e all’accademia, suscitando curiosità, scontri, dibattiti, oltre all’eliminazione immediata da casa di macinapepe a forma di torre Eiffel, regalo della nonna, e di certe poltrone fatte di corna di cervo al momento non sufficientemente ironiche e poco dopo di nuovo ricercatissime, ogni volta che il Kitsch passava dal ludibrio alla venerazione».
Nella foto, Gillo Dorfles (secondo da destra, seduto), a un incontro sull’«arte povera», ad Amalfi, nel 1968.
Ivano Sartori

Gillo Dorfles (a sinistra) con Lucio Fontana, nel 1964.

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